Danza

Matteo Levaggi, coreografo ribelle: “La danza è morta. Torni a essere fuoco che brucia certezze!”

Matteo Levaggi
Matteo Levaggi

Protagonista della coreografia internazionale, Matteo Levaggi si racconta a Teatro.it a poche settimane dalla mesa in scena del suo “Over the rainbow” al festival Oriente Occidente di Rovereto.

”Esercizio retorico, ostentazione narcisistica, pratica autoreferenziale, strategia mediatica, convenzione dell’anticonvenzionale, concetti privi di senso: la danza è morta ben prima dell’emergenza Covid 19”. Matteo Levaggi, coreografo internazionale molto amato in Italia e all'estero, non rinuncia a un affondo spietato sul panorama della danza. E lo fa a poche settimane dalla sua nuova creazione “Over the rainbow”, in programma l’11 e 12 settembre al festival Oriente Occidente di Rovereto.

Levaggi, sputa nel piatto dove mangia?
Di solito, per non sputare nel piatto, rifiuto il piatto dal principio. La mia indole è sempre stata quella di andare in direzione contraria a ciò che ritengo convenzionale, anche a rischio di perdere certezze. E’ probabilmente per questo che ritorno a Oriente Occidente, festival italiano che ha mantenuto coraggiosamente la sua impronta e il senso vivo della contemporaneità. Sono pronto a mettermi in discussione anche in questa nuova occasione, distruggendo e rivalutando le sicurezze iniziali della creazione nel momento in cui il lavoro andrà in scena. E’ solo così che il fuoco della danza torna ad accedersi. 

Provocatorio: avrà pur trovato qualcosa di buono sulla scena contemporanea prima del lockdown?
A mio avviso ciò che di buono è accaduto negli ultimi anni è l’avvento di una generazione che nel tempo ha sviluppato una nuova visione di coreografia e teatro. Dimitris Papaioannou per esempio, è un artista greco all'avanguardia perché unisce teatro visivo, danza e multimedialità in un’inedita visione della coreografia. Quest’approccio totale è in forte contrasto con un altro fenomeno, quello dei social. Mi domando se il fenomeno di Tik tok, potenzialmente oggetto d’arte, che in pochi secondi trita e ci rimanda a un falso immaginario di ciò che è la danza, non privi la danza di artisticità. Allo stesso tempo, quando qualcosa di eccellente appare incidentalmente, penso che possa essere considerato come nuovo strumento per fare scouting.

Le Vergini


Lei ha creato anche per grandi teatri d’opera, dall'Arena di Verona al Massimo di Palermo fino al MaggioDanza: luoghi della danza convenzionale…
Ci sono arrivato con il proposito di realizzare qualcosa di personale sia dal punto di vista coreografico sia registico, ma ritengo di non esserci pienamente riuscito. Le regole e il modus operandi delle fondazioni lirico-sinfoniche non mi hanno permesso, per via dei tempi di creazione e dei vecchi meccanismi interni, di realizzare balletti che corrispondessero veramente alle mie intenzioni. Il risultato è stato convenzionale. Registicamente, per “La bella addormentata” al teatro Massimo avrei voluto osare di più esprimendo la mia naturale visione contemporanea, cosa che nell'opera lirica è più raggiungibile.

Eppure la sua “Bella addormentata” in stile Walt Disney, con il ruolo maschile di Carabosse e la fata dei Lillà asessuata, è stata giudicata tutt'altro che convenzionale…
Avrei voluto proseguire la mia prima stesura per il Balletto Teatro di Torino, amplificandola con i mezzi di un teatro d’Opera come il Massimo, che purtroppo non ha voluto rinunciare a tutù e scarpette. Avevo immaginato la principessa Aurora come la Lolita di Kubrick ma si è dissolta in un personaggio fiabesco che non corrispondeva alla mia intenzione. Avrei voluto tracciare in maniera più incisiva il passaggio dall'adolescenza all'età adulta, anche dal punto di vista della sessualità. 

Ricorda le ottime recensioni di quel lavoro?
Certo. Ma ciò non toglie che io sia critico anche sulla buona critica. La critica odierna manca di riferimenti internazionali non rendendo giustizia ai danzatori e alle loro capacità. A mio avviso manca un’effettiva conoscenza della tecnica classica e del suo sviluppo. Mi domando se il ruolo del critico oggi abbia ancora un senso, dal momento in cui i social hanno un’influenza molto forte sul pubblico. Come abbiamo visto durate il lockdown, nelle varie dirette, ho trovato più costruttivo il dibattito sui talenti artistici e sulla loro profondità. 

Primo toccare


Le sue esperienze più significative all'estero?
Fra tutte la settimana a contatto con il pubblico di New York nel 2009 al Joyce Theatre con “Primo Toccare” per il Balletto Teatro di Torino dove si è chiuso, grazie al passaparola, con il sold out. L’esperienza americana nasce dall'ospitalità alla Biennale di Lione che apriva nuovamente la strada agli italiani. 

Dal 1999 al 2009 è stato coreografo del BTT. Stipendio fisso, contratto indeterminato: perché se ne è andato?
La libertà di creazione viene prima di tutto. Il lavoro con il BTT è iniziato a 22 anni e proseguito con la mia crescita artistica. La consapevolezza che una compagnia stabile fosse un limite alla mia espressione creativa è arrivata nel 2009; così ho intrapreso una nuova strada, rischiando.

Torniamo alla sua nuova creazione al Mart per il festival di Rovereto, “Over the rainbow”…
E’ la chiusura di un capitolo della mia carriera e il passaggio a un nuovo pensiero coreografico ancora in embrione. Il rapporto della danza con l’arte visiva si snoda attraverso le opere di Umberto Chiodi: quattro coloratissimi assemblaggi luminosi collocati nella sala che ospita Wall drawing di Sol Lewitt, uno dei capolavori minimalisti dell’artista statunitense. Location non casuale data la relazione privilegiata di Lewitt con la nascente danza postmoderna newyorchese negli anni Settanta e in particolare con Lucinda Childs. Una sfida alla finitezza dei corpi dei danzatori, che avranno una protesi con cui confrontarsi in tempi di distanziamento e una sfida alla composizione coreografica costretta a concertarsi con questi oggetti.

Primo toccare


Da settembre sarà anche coreografo residente e docente a Padova Danza per una stagione: cosa trasmetterà ai giovani?
Grazie alla volontà di Gabriella Furlan Malvezzi, direttrice artistica di Padova Danza, avrò la possibilità di lavorare con giovani danzatori, trasmettendo semplicemente gli strumenti per costruire la loro visione personale di artisti di oggi: ribellarsi alle regole imposte e ai condizionamenti culturali per trovare il loro fuoco interiore e imporlo in una società tanto aggressiva come quella in cui viviamo.

Avrebbe il coraggio di dire a un danzatore: “questa strada non è per te”?
Assolutamente. Non ho mai avuto alcun fine commerciale o di marketing per non esprimere il mio punto di vista. Mi è già capitato e non è stato facile, ma credo nell'onestà intellettuale.

A lei hanno mai detto che non era portato?
Al primo esame di danza con i giurati dell’Accademia Nazionale di Roma. Mi dissero che non ero adatto alla carriera di danzatore e che “pavoneggiavo davanti allo specchio”.